Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, la transizione ecologica è debole

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è indubbiamente il documento più sottovalutato dai grandi media e dalla cittadinanza. Va letto innanzitutto per la sua portata storica, politica, sociale ed ambientale di medio e lungo termine. Quando si legge PNRR, acronimo del suddetto piano, si deve leggere come il più importante piano di sviluppo strategico del paese di questa prima metà di secolo. Siamo lontani dai tagli lacrime e sangue del governo Monti, dal classico sapore rigorista tanto caro ai paesi del nord, agli economisti neoclassici e ai fan della scuola di Chicago (in versione light). Stiamo parlando del primo grande piano keynesiano dell’Europa unita, il Next Generation EU, che punta sulla spesa, sul debito buono per trasformare rapidamente un’economia di fatto sorpassata, stantia, fatta di vecchie ricette petro-neoliberiste. O almeno così vorrebbe il Green Deal EU.

Il piano Next Generation EU (NGEU) pesa per oltre 750 miliardi di Euro (senza contare poi il budget ordinario EU 2021-2026 che ne sostiene i pilastri fondamentali e porta la cifra a 1600€ e un mondo finanziario smanioso di investire sulla transizione ecologica, quella vera però) e punta su tre elementi: transizione ecologica (decarbonizzazione, economia circolare, salute in senso olistico), riequilibrio sociale (generazionale, di genere e nuovi europei) e riassetto economico (ripresa post-pandemica, rilancio manifatturiero, digitalizzazione 4.0).

L’Italia è il maggior beneficiario, con uno stanziamento di 191,5 miliardi di euro, divisi tra prestiti e finanziamenti a fondo perduto, a cui si aggiungono i 30 miliardi di un fondo complementare – finanziato attraverso lo scostamento pluriennale di bilancio approvato nel Consiglio dei ministri del 15 aprile – per una dotazione complessiva di 221,5 miliardi. Un’opportunità senza precedenti. Che però grazie alla forte pressione di alcune lobby e delle solite direzioni generali dei ministeri (e di qualche ministro tecnocrate) rischia di essere depotenziata.

In questo articolo non entrerò nel merito della complessità del piano in sé ma mi limiterò ad uno dei tre pilastri, quello della transizione ecologica, cercando di capire gli impatti a livello nazionale e a livello regionale, nello specifico l’Emilia Romagna, territorio di riferimento di questa testata, chiara.eco.

Italian Green Deal?

Nell’ambito della rivoluzione verde il governo alloca complessivamente 68,6 miliardi – 59,3 miliardi dal Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza e 9,3 miliardi dal Fondo complementare – dei 222,1 miliardi dell’intero PNRR. Associando anche in questo caso una serie di riforme e snellimenti burocratici che accompagnino la spesa. “Il Governo intende aggiornare le strategie nazionali in tema di sviluppo e mobilità sostenibile, ambiente e clima, idrogeno, automotive e filiere della salute”, è stato il commento del Presidente del Consiglio, Mario Draghi che ricorda che il piano “soddisfa largamente i parametri fissati dai regolamenti europei sulle quote dei progetti green e digital”. Nello specifico la sostenibilità, per chiarezza di rendicontazione è contenuta nel più ricco di tutte le sei missioni in cui si articola il piano (con 16 sotto-componenti).

Un ponte per la Transizione verde. Fonte: Pixabay

Partiamo dall’impianto e dalle cifre investite. L’ambiente è ripreso ampliamente nei preamboli. “L’Italia è particolarmente vulnerabile ai cambiamenti climatici e, in particolare, all’aumento delle ondate di calore e delle siccità. Le zone costiere, i delta e le pianure alluvionali rischiano di subire gli effetti legati all’incremento del livello del mare e delle precipitazioni intense” afferma Draghi. Più volte viene ribadita il contributo del PNRR italiano alle iniziative flagship di NGEU, dalle energie rinnovabili, alla rigenerazione degli edifici fino a “Recharge & refuel”, per trasformare il settore dei trasporti vero tallone d’Achille nel processo di decarbonizzazione italiano.

Ma a lasciare delusi sono le cifre, soprattutto per rinnovabili, trasporto pubblico, tutela della biodiversità, parchi, innovazione e ricerca. Come vedremo nei vari paragrafi qua sotto il governo invece che spingere sull’acceleratore, fa timidi passetti, troppo spesso invischiato in vecchie logiche, poco coraggioso, e timoroso della cantierizzazione dei progetti. Vincono il gas e l’idrogeno, i vecchi progetti di mobilità, una concezione di un paese autocentrico. Sull’economia circolare il Mite dimostra di non aver capito esattamente cosa sia. Sulla natura non va molto meglio nonostante l’ultimo rapporto sul capitale naturale. Vediamo in dettaglio.

Economia Circolare, inesistente

Dal punto di vista dell’autore la mancanza più grave è ignorare completamente la sfida dell’economia circolare, ridotto a settore merceologico, o meglio ridotto al tema dei rifiuti e degli impianti. L’economia circolare avrebbe dovuto invece essere un quadro di visione di ripensamento dell’intera industria italiana, dalle clausole di riuso di materiali nei progetti di edilizia e infrastrutturali, fino all’ecodesign nei sistemi, nei prodotti. Si perde un treno importante che avrebbe potuto mettere l’Italia all’avanguardia nel mondo (dove è finito il polo dell’economia circolare ipotizzato dal ministro Costa?). Per di più l’economia circolare, accostata all’agricoltura, raccoglie solo 2,1 miliardi, un’inezia. Per le imprese dell’Emilia Romagna del settore plastica, ad esempio, i fondi PNRR avrebbero potuto essere la chiave per la riconversione, rimanendo invece condannati a essere schiacciati dall’inevitabile plastic tax e dalla pressione dei consumatori “plastic-free”.

Economia circolare. Fonte: Campi Aperti

I Progetti “faro” poi elencati nel Piano sono più che altro una torcia mezza scarica. 600 milioni di euro per innovare semplicemente il riciclo in alcuni settori a forte valore aggiunto, con l’obiettivo di raggiungere target di riciclo specifici: carta e cartone, 85%; metalli ferrosi, 80%; alluminio, 60%; vetro, 75%; plastica, 55%; legno, 30%. L’Italia ad oggi è ancora lontana dal raggiungimento di questi target, ad esempio più del 50% dei rifiuti plastici viene raccolto come Rifiuti Plastici Misti e quindi non recuperato ma utilizzato per il recupero energetico o inviato in discarica. In questo contesto, la misura intende potenziare la rete di raccolta differenziata e degli impianti di trattamento/riciclo contribuendo al raggiungimento dei seguenti target di: 55% di riciclo di rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (RAEE); 85% di riciclo nell’industria della carta e del cartone; 65% di riciclo dei rifiuti plastici (attraverso riciclaggio meccanico, chimico, “Plastic Hubs”); 100% recupero nel settore tessile tramite “Textile Hubs”. Nulla sul tema eco-design, innovazione dei servizi di sharing, promozione di studi sui Prodotti-come-servizio (PaaS), niente ricerca su blockchain e digitale in ottica circular (e non c’è traccia nemmeno nella sezione sul digitale), niente innovazione sul remanifacturing dell’industria, niente hub dell’economia circolare o sostengo alla creazione di programmi nelle università di economica, design, ingegneria e architettura.

Biodiversità, assente

Peggio dell’economia circolare fa la tutela della biodiversità e dei servizi naturali, che sono del tutto assenti nei preamboli del PNRR, che fallisce nel comprendere il legame tra salute dei cittadini e dell’ambiente. Su questo tema emerge la totale incapacità del ministro della Transizione Ecologica di cogliere l’opportunità della transizione ecologica, che diviene più che altro una transizione tecnologica green. La parola ecologia compare una volta solo e legata al reskilling (che poteva semplicemente definirsi aggiornamento professionale) degli operatori culturali.

La tutela della biodiversità compare principalmente nella Componente 4 (M2C4) e brevemente nella Componente 1 (le cosiddette Green Communities, comunità agricole e montane che puntano su uno sviluppo economico integrato con l’ambiente). In totale si allocano solo 1,69 mld, con 330 milioni per il verde urbano (con Milano che riceverà la fetta più grande), 100 milioni per la digitalizzazione dei parchi naturali, 360 milioni per la rinaturalizzazione dell’area del Po (forse la cifra più significativa per un’area regionale, che interessa naturalmente i comuni emiliani rivieraschi) e quasi un miliardo per la tutela dei mari e la bonifica dei siti orfani.

Briciole contro gli 8,49 miliardi per la lotta al dissesto idrogeologico, che puntano principalmente a lavori infrastrutturali (e conseguenti colate di cemento) di cui bisognerà valutare la bontà progetto per progetto. Il rischio in questo caso è l’uso di soluzioni tradizionali (briglie, invasi, argini) invece che di nature-based solution. Tema simile per l’approvvigionamento idrico, per cui si punta tantissimo su invasi e infrastrutture invece che su un efficientamento del sistema e studio e implementazione di soluzioni naturali (chiodi vegetali, piantumature tecniche, ecc).

Decarbonizzazione, insufficiente

Il PNRR avrà impatti ridotti sulla riduzione delle emissioni: non riesce a identificare nei settori della decarbonizzazione il volano per la ripresa economica sostenibile e non è incisivo nell’allocazione delle risorse e nelle riforme per innovare i settori pilastro della decarbonizzazione. Il giudizio del mondo degli esperti e del mondo delle associazioni ambientaliste, come T&E, Legambiente, o Italian Climate Network è negativo. Innanzitutto PNRR indica un obiettivo di decarbonizzazione per l’Italia al 2030 del 51% senza che questo appartenga in alcun modo a strategie o policy nazionali pubbliche e concordate a livello europeo o internazionale. Va ricordato che l’EU ha confermato una riduzione del 55% al 2030 (obiettivo per altro già insufficiente per raggiungere la carbon neutrality al 2050).

Per mantenere la traiettoria di decarbonizzazione, l’Italia dovrebbe aggiungere 6000MW di rinnovabili ogni anno. Lo stesso Ministero Transizione Ecologica ambisce ad una penetrazione delle FER al 72% al 2030 rispetto al 35% attuale. Tuttavia il PNRR prevede risorse per soli 4000 MW, per le comunità energetiche e l’agri-voltaico, per tutta la durata del Piano, cioè fino al 2026. In entrambi i casi non sono previste riforme sulla regolazione e la fiscalità energetica che permetterebbero di trasformare l’incentivo in una politica di sviluppo. Solo 200 MW con 0,68Mld sono destinati per lo sviluppo di rinnovabili incluso l’eolico off-shore.

Sarebbero servite (e questo avrebbe avuto un grande impatto sull’industria emiliano-romagnola) più risorse per il mondo delle imprese (che hanno chilometri quadri di tetti di capannoni disponibili) e dell’agricoltura. Certo è noto che l’offshore è osteggiato da molti amministratori che temono un deturpamento del paesaggio marino iperantropico della costa. E le discussioni provocate dall’intervista di Stefano Ciafani, presidente di legambiente sul ruolo pernicioso delle sovrintendenze fanno capire come a una fetta del paese (incluso il ministro Franceschini) non abbia compreso la situazione critica della crisi climatica. Detesto impiegare le metafore belliche, ma la transazione ecologica ha la stessa urgenza della riconversione industriale bellica. E per di più dopo che abbiamo devastato intere regioni con strade ed autostrade, invadiamo ogni giorno le città con mezzi a motore, davvero abbiamo l’ipocrisia di dire che pannelli solari e pale eoliche deturpano il paesaggio? Servirebbe un piano di concentramento delle rinnovabili in alcune zone – per altro con piani subito cantierabili – per dare un grandissimo impulso alla crescita del settore e ad un ‘ondata di investimenti italiani e stranieri da parte del settore privato.

Poco chiaro anche il supporto all’accumulo, su cui l’Italia avrebbe bisogno di investimenti per lanciarne la diffusione massiccia (perché non renderlo obbligatorio ad esempio nel Bonus 110%). L’efficienza energetica inoltre non interessa l’industria: niente obblighi di efficientamento energetico legati ai finanziamenti del Piano. Sarebbero servite clausole per finanziamenti per la digitalizzazione (che aumenterà i consumi elettrici delle imprese) accompagnati da processi anche parziali di efficientamento e autonomia energetica. La paura di fare in fretta spinge per un abbassamento al minimo comun denominatore.

Uniche luci: il progetto sulle isole verdi. Diciannove isole destinate a diventare laboratori, con l’obiettivo di renderle 100% verdi e autosufficienti, lavorando su fonti rinnovabili, sistemi di gestione idrica efficienti, impianti di desalinizzazione non a gasolio e separazione e lavorazione dei rifiuti con impianti dedicati. Ma in fondo sono solo un’isola in mezzo ad un mare che rimane in tempesta.

Idrogeno, abbondante

Per Draghi: “E’ evidente che la transizione debba tendere all’utilizzo di idrogeno verde, questo richiederà un’efficacia senza precedenti nel raggiungere i target di generazione di elettricità da sorgenti rinnovabili”. Sono 3,6 i miliardi stanziati per il suo sviluppo. Un tema molto caro a Cingolani che lo ritiene un architrave della transizione e un salvacondotto per il gas naturale. Già perché l’idrogeno può essere molto sostenibile (verde) se fatto da fonti rinnovabili oppure (blu) se fatto da fonti fossili con sistemi di cattura e stoccaggio della CO2 o addirittura grigio, per nulla sostenibile, se prodotto direttamente da gas naturale. E nell’idrogeno italiano, c’è tanto gas, forse troppo.

Sono solo 300 i milioni previsti per la produzione in aree industriali dismesse, con elettrolizzatori alimentati da fonti rinnovabili, in modo da produrre il gas dall’acqua senza emissioni di CO2; 2 miliardi sono per l’utilizzo dell’idrogeno in settori industriali “hard to abate“, dove è l’unico strumento per abbattere le emissioni di gas serra (chimica, raffinerie, acciaierie, cementifici, vetrerie, cartiere). Ci sono poi 530 milioni complessivamente per realizzare nuove stazioni di ricarica per il trasporto stradale (40 punti, lungo i “corridoi verdi” per i tir ad idrogeno) e per il trasporto ferroviario (esclusa l’Emilia che non ha mai investito in questo senso diversamente da Lombardia, Sicilia, Puglia, Abruzzo).

Infine 160 milioni andranno per la ricerca e scaling up di fuel cell e altre tecnologie necessarie per questo combustibile alternativo. Oltre il PNRR verranno erogati incentivi fiscali per sostenere la produzione di idrogeno verde, incluso in un progetto di più ampia revisione generale della tassazione dei prodotti energetici e delle sovvenzioni inefficienti ai combustibili fossili, tema che il governo dovrà affrontare inevitabilmente in sede G7/G20.

La vera porcheria però è emersa da un’inchiesta di IRPI. Secondo il sito di giornalismo investigativo, oltre la versione presentata in Parlamento e disponibile sul sito di Palazzo Chigi esisterebbe una versione di 2.487 pagine. È quella contenente gli approfondimenti del piano in inglese, da negoziare con la Commissione, e gli allegati riguardanti gli scenari macroeconomici, i cronoprogrammi e altri elementi tecnici. Un documento non pubblico ma che è stato reso disponibile dall’associazione onData. In questa versione si conferma l’interesse per l’idrogeno blu e il CCS-CCU di Eni a Ravenna.

Negli allegati in inglese si legge infatti che: «Per la decarbonizzazione, il passaggio progressivo all’idrogeno a basse emissioni di carbonio (blu, ndr) sarebbe una valida alternativa, come step intermedio verso l’idrogeno verde». Nella versione italiana non è mai citato l’idrogeno blu. Nel testo inglese l’idrogeno dovrà essere prodotto in siti industriali dismessi allacciati alla rete gas per essere poi distribuito all’industria pesante, industria chimica e petrolichimica, tramite miscelazione al 2% con il metano (ma potrà raggiungere il 10%). Una lista dei siti dismessi è stata fornita da Confindustria.

Emilia Romagna

Sono vari gli ambiti produttivi su cui si dovrebbe intervenire tramite PNRR: settore ceramico, eolico offshore e rinnovabili, oil and gas offshore di Ravenna, automobilismo e motori, agricoltura ed edilizia.

Il Settore ceramico, da sempre punta di diamante della regione deve ridurre sistematicamente gli impatti ambientali, con migliori tecnologie di depurazione e abbattimento degli inquinanti e degli odori ed abbracciare un’ottica circolare della filiera, puntando su innovazione e migliorando la logistica. La soluzione non è certo però la nuova bretella autostradale tra Sassuolo e Campogalliano che impatterà aree naturali lungo le sponde del fiume Secchia.

L’oil&gas da sempre ha una grande rilevanza in regione, specie per l’estrazione di idrocarburi nel mare Adriatico. È un settore che ha perso migliaia di addetti nel giro di vent’anni, abbandonando decine di piattaforma mai riconvertite o smantellare. Oggi rimane la possibilità di realizzare a Ravenna un impianto per lo stoccaggio di anidride carbonica (il CCS ovvero Carbon Capture and storage) per la produzione di idrogeno proposto da ENI come un’innovazione sostenibile, ma che di fatto è il canto di una sirena di una compagnia sempre di più esposta ad importanti rischi finanziari e che deve invece accelerare più rapidamente possibile verso la transizione alle rinnovabili e all’economia circolare. Sarebbe da accelerare la riconversione del distretto industriale dell’Oil and gas di Ravenna verso un futuro davvero sostenibile. Per l’Emilia investire nelle rinnovabili (agrofotovoltaico intelligente) e nell’eolico offshore a distanza dalla costa avrebbe garantito un vantaggio strategico per le imprese, in grado di offrire sul mercato internazionale prodotti a emissioni ridotte. Ora bisognerà aspettare i capitali stranieri che investano per accelerare la decarbonizzazione.

Gasdotto. Fonte: Pixabay

Il comparto agricolo è il grande assente dalla “transizione verde”, in particolare la zootecnia intensiva. Un’assenza che peserà nell’ammodernamento degli allevamenti emiliano-romagnoli, puntando meno sulla quantità e più sulla qualità, per ridurre gli impatti ambientali. Unica eccezione lo spazio lasciato al biometano, tema di grande interesse per l’Emilia. Il governo infatti erogherà 1,92 miliardi di euro per lo sviluppo del biometano con progetti immediatamente cantierabili nella filiera agricola e agroindustriale italiana, un importante volano per gli investimenti nel settore primario. Un risultato ottenuto grazie alla buona lobbying del CIB, il Consorzio Italiano Biogas.

La Motor Valley guarda con interesse alle commissioni di veicoli green di grossa taglia, come le macchine agricole e la produzione di autobus elettrici, ma il settore è ancora fortemente ancorato al motore a scoppio e agli idrocarburi. Servono risorse per accompagnare la transizione, altrimenti le commissioni di mezzi (e i soldi) finiranno a società tedesche, polacche o altro. In generale la Motor Valley deve iniziare un piano al 2030 per diventare la e.motor valley, la valle dei motori di nuova generazione, dalle moto elettriche ai mezzi ad idrogeno, coinvolgendo ancora di più il settore universitario.

Sul tema edilizia si deve fare una campagna per convincere condomini ed abitanti ad usufruire dei finanziamenti per la riqualificazione sismica ed energetica del patrimonio esistente, soprattutto abbandonando la soluzione del consumo di suolo. Tra le riforme importanti: nei comuni dell’Emilia Romagna deve diventare obbligatoria la costituzione del catasto delle aree dismesse e dei capannoni abbandonati. Tali catasti dovranno fornire la prima scelta di aree da proporre alle aziende produttive e terziarie interessate ad insediarsi, favorendo e semplificando questo tipo di percorsi, e disincentivando davvero l’utilizzo della campagna vergine.

Ora la sfida rimane da capire come saranno realizzati i bandi e le quote allocate (dato che molte richieste di finanziamento potrebbero essere parziali), come i progetti saranno sostenuti dal settore privato, le riforme necessarie per la realizzazione di quanto elencato nel PNRR, gli eventuali ostacoli (dai Nimby alla burocrazia) e i tempi di cantierizzazione (la scarsa disponibilità di materiale edile e componenti la dice lunga).

Di Emanuele Bompan

Giornalista ambientale e geografo. Si occupa di economia circolare, cambiamenti climatici, innovazione, energia, mobilità sostenibile, green-economy, politica americana. E’ Direttore della rivista Materia Rinnovabile, collabora con testate come La Stampa, Nuova Ecologia, Oltremare. Ha scritto l’Atlante geopolitico dell’Acqua (2019, HOEPLI), Water Grabbing – le guerre nascoste per l’acqua nel XXI secolo (EMI, 2018), “Che cosa è l’economia circolare” (ed. Ambiente, 2017), uscito anche in edizione inglese What is the Circular Economy, e Il mondo dopo Parigi.L’accordo sul clima visto dall’Italia: prospettive, criticità e opportunità (ed. Ambiente, 2016). Ha vinto per quattro volte l’European Journalism Center IDR Grant, una volta la Middlebury Environmental Journalism Fellowship ed è stato nominato Giornalista per la Terra 2015. Ha svolto reportage in 76 paesi, sia come giornalista che come analista.