Il costo ambientale delle nostre vite digitali

Dallo streaming alle mail, anche le nostre azioni digitali hanno un impatto sull’ambiente, ma  possiamo misurarlo in modo efficace?

 

Dal momento in cui ci alziamo la mattina ognuno di noi compie azioni che contribuiscono in qualche modo al deterioramento ambientale e, in ultima analisi, si può dire che ognuna di queste incide anche sulla crisi climatica. A livello individuale il nostro contributo può essere più o meno grande, ma è comunque irrisorio rispetto alle capacità dell’ecosistema. Se però lo sommiamo a quello degli altri 8 miliardi concludiamo che ognuno di noi è parte del problema, e quindi potrebbe partecipare alla sua risoluzione. 

A volte possiamo ridurre il nostro impatto senza perdere benessere, e magari aumentarlo: da quello che mangiamo a come ci spostiamo troviamo ovunque dei consigli su come ridurre un po’ la nostra impronta del carbonio. Solo che la faccenda diventa complicata, perché non tutti inquiniamo allo stesso modo e non tutti abbiamo le stesse possibilità di cambiare il nostro stile di vita, indipendentemente dalla volontà. Per esempio, fare la spesa in modo “sostenibile” a volte ha un costo più elevato; non è detto che per le nostre esigenze, dove viviamo, cosa facciamo e anche l’età che abbiamo sia sempre possibile non usare l’auto in favore dei mezzi pubblici; magari ci piacerebbe usare meno il condizionatore, ma bisogna sopravvivere alle temperature elevate delle stagioni più calde.

C’è però oramai una grande “livella”, per così dire: oramai tutti ci colleghiamo a Internet con diversi dispositivi, e attraverso internet sono erogati sempre più servizi, da quelli indispensabili a quelli voluttuari. Secondo i dati elaborati da We Are Social in media passiamo quasi sei ore al giorno on line.

Possiamo allora calcolare la nostra impronta del carbonio digitale?

Fonte: Turrini, V.. (2024). Digital 2024 – i dati italiani – We Are Social Italy. We Are Social Italy. Retrieved from https://wearesocial.com/it/blog/2024/02/digital-2024-i-dati-italiani

 

Se 8 mail inquinano come un’automobile

Dal 2010 ADEME, l’agenzia francese dell’energia, prova a misurare l’impatto dei nostri consumi digitali, e in particolare “traduce” l’utilizzo dei servizi in quantità di comunicazione digitale in quantità di CO2 equivalenti emesse. Esistevano già i principali social network, ma non erano ancora ubiquitari: forse perché anche gli smartphone non avevano ancora conquistato il pianeta. Inoltre, a quel tempo, Netflix era conosciuta solo in USA e solo da due anni aveva lanciato il suo servizio di streaming (prima noleggiava solo DVD).

Però tutti (o quasi) usavamo la mail, e sono stati proprio i calcoli relativi all’impatto della mail a fare scalpore. Nella sintesi dello studio commissionato da ADEME si legge che, potenzialmente, l’invio di un documento elettronico di 1 mb via mail consuma circa 25 Wh, e può generare circa 20 gr (10-30) di CO2 equivalente. Il documento afferma che se consideriamo 20 mail al giorno per persona allora in termini di CO2 potremmo inquinare in un anno come guidando un’auto per 1000 km. Partendo dal comunicato di ADEME, la stampa italiana ha invece usato quasi sempre questa similitudine: 8 mail equivalgono a guidare un’automobile per 1 km.

Se una semplice e-mail ha un impatto misurabile (in un anno ne inviamo centinaia di miliardi), figuriamoci ora che divoriamo serie televisive in streaming (secondo alcune stime, un’ora di streaming porterebbe all’emissione di 36 g di CO2 equivalente)!

 

Numeri a volontà, ma quanto informativi?

Solo che le cose non sono così semplici, sia dal punto di vista tecnico che comunicativo. Per esempio, lo studio commissionato da ADEME (come quelli successivi), sono ovviamente contesto-specifici. In quel caso si prendeva in considerazione in particolare la realtà francese, e quindi il loro mix energetico: i risultati non sono, cioè universali.

Inoltre, ancora oggi questi numeri di oltre 10 anni fa, assieme all’esempio dell’automobile, sono ancora diffusi nella pubblicistica come validi, anche se la situazione è cambiata rapidamente. Infine c’è un problema di complessità: non esiste un metodo standardizzato per misurare l’impatto di una nostra singola azione nel mondo digitale (in questo caso in termini di emissioni gas serra), anche se non è possibile dubitare che esista (per quanto minuscolo). Questo perché Internet è una struttura globale, composta da un numero crescente di parti e che non dorme mai. Le stime dell’impatto di un’email, di una ricerca web, o di qualunque altro utilizzo si devono basare su un numero molto elevato di supposizioni, cioè ulteriori stime: dai dispositivi collegati all’infrastruttura, al tempo impiegato per svolgere una certa azione.

I materiali prodotti da Bio Intelligence Service, l’agenzia incaricata da ADEME, erano molto chiari sui limiti del loro studio, che peraltro era ampio e provava a stimare tutta una serie di altri impatti ambientali (per esempio la produzione di polvere sottili o di gas dannosi per l’ozono). Si spiegava che, mentre per l’infrastruttura (per esempio, i data center) il potenziale impatto ambientale era dovuto soprattutto all’energia elettrica consumata, a causa dell’utilizzo intensivo 24 su 24, per i singoli consumatori la maggior parte dell’impatto era invece dovuta alla produzione dei dispositivi usati, destinati a diventare e-waste, rifiuto elettronico. Questo è un dettaglio importante. Anche oggi, se decidiamo di affidarci a uno dei tanti servizi per stimare la nostra impronta del carbonio digitale (per esempio, il primo su Google per chi scrive è www.digitalcarbonfootprint.eu) vediamo che l’impatto legato al possesso di uno strumento o gadget collegabile in rete è centinaia di volte superiore a quello dell’utilizzo dei servizi. Nessuno di questi calcolatori liberamente accessibili è “certificato” da società scientifiche ma se, anche con qualche riserva, prendiamo per buone le fonti che affermano di utilizzare, possiamo almeno fidarci che al di là delle cifre la distanza tra l’impatto dei materiali e l’uso dei servizi sia verosimile.

I tre spicchi colorati sulla sinistra stimano le emissioni annuali dell’ascolto di musica in streaming, dell’utilizzo di internet a banda larga, e dell’utilizzo di internet mobile. Il resto è relativo la stima di emissioni relativa all’uso di un PC e di un cellulare, dove la sola produzione del dispositivo incide per il 70-80%

I tre spicchi colorati sulla sinistra stimano le emissioni annuali dell’ascolto di musica in streaming, dell’utilizzo di internet a banda larga, e dell’utilizzo di internet mobile. Il resto è relativo la stima di emissioni relativa all’uso di un PC e di un cellulare, dove la sola produzione del dispositivo incide per il 70-80%.

La sintesi esplicitava anche che i risultati, da soli, non erano sufficienti per dare un’idea al pubblico. Nonostante questo i comunicati stampa prodotti da ADEME furono molto meno “sfumati”, e lanciavano una serie di consigli a volte un po’ discutibili a livello individuale, come quello di cancellare spesso le mail non più necessarie o limitare il numero di destinatari in copia a quelli realmente necessari. Molti esperti hanno sempre guardato con sospetto a queste suggerimenti (molto diffusi), proprio per i motivi di cui sopra.

 

Una visione di insieme

Tutto questo non significa che internet non inquini e che dovremmo smettere di preoccuparcene, anche a livello individuale. Ma occorre avere le idee ben chiare sul problema. In questo ci sono di aiuto i dati raccolti dall’agenzia internazionale dell’energia, IEA.

Internet è in continua espansione, e al momento la sua infrastruttura (data center e linee di trasmissione) divorano l’1-1,3% dell’energia elettrica mondiale, contribuendo a circa l’1% delle emissioni mondiali, pari a 330 megatonnellate di CO2 equivalenti l’anno. Non è certo poco, ma per una volta si potrebbe dire senza ironia che potrebbe andare peggio. Il motivo è che nonostante la crescita vertiginosa del traffico e degli utenti, i consumi di energia elettrica negli anni non sono aumentati in maniera proporzionale. 

La figura mostra l’aumento del traffico internet e del carico di lavoro dei data center rispetto ai consumi di questi ultimi. IEA, Global trends in internet traffic, data centre workloads and data centre energy use, 2015-2021, IEA, Paris https://www.iea.org/data-and-statistics/charts/global-trends-in-internet-traffic-data-centre-workloads-and-data-centre-energy-use-2015-2021, IEA. Licence: CC BY 4.0

Questo perché, secondo l’IEA, il settore IT è uno di quelli che si evolve più rapidamente dal punto di vista dell’efficienza e, complice la decarbonizzazione del sistema energetico (ancora lontana dal concludersi), anche la crescita delle emissioni è stata contenuta.

I colossi di Internet, inoltre, investono direttamente in impianti a energia rinnovabile. Ben inteso: dietro queste mosse c’è un aspetto di marketing, perché oggi tutte le aziende e le istituzioni vogliono almeno apparire “verdi”. Detto questo, si tratta anche di una strategia economicamente sensata vista la competitività delle rinnovabili e la rapidità del loro sviluppo.

Big-tech, l’oligopolio a cui quasi tutti affidiamo le nostre vite digitali, da tempo stringe accordi per alimentare le proprie apparecchiature con una quota crescente di energia rinnovabile. IEA, Top corporate off-takers of renewable energy power purchase agreements, 2010-2022, IEA, Paris https://www.iea.org/data-and-statistics/charts/top-corporate-off-takers-of-renewable-energy-power-purchase-agreements-2010-2022, IEA. Licence: CC BY 4.0

Queste “buone notizie”, spiega la IEA, non sono però sufficienti. L’obiettivo rimane quello di annullare le emissioni nette, anche in questo settore, e per raggiungerlo nel 2050 dovremmo dimezzarle entro il 2030, che è dietro l’angolo. Ma la diffusione capillare dell’intelligenza artificiale è appena cominciata, e avrà un impatto sui consumi globali che non siamo ancora in grado di prevedere. I consumi elettrici citati relativi all’infrastruttura di internet (trasmissione e data center) non considerano poi il mining delle criptovalute (come Bitcoin), che da sole consumano 100-150 TWh all’anno, grossomodo la metà di tutti i data center. Ogni nuovo Bitcoin viene generato da complessi calcoli matematici su macchine dedicate, che richiedono una quantità esorbitante di elettricità: dal 2015 il consumo è aumentato fino al 3500%. 

Anche senza considerare il grande spreco di questa energia ci sono ampi margini di miglioramento, ma secondo la IEA al momento le politiche per limitare gli impatti sono poche e spesso su base volontaria. Si stanno comunque sviluppando best practice e certificazioni in questa direzione, e c’è sempre più richiesta di trasparenza e raccolta di dati su questi consumi.

Tornando all’inizio: c’è qualcosa che come singoli possiamo fare per limitare la nostra impronta del carbonio digitale? La risposta è la stessa che, secondo gli addetti ai lavori, vale per la riduzione di tutte le nostre “impronte ecologiche”. Con un po’ di buon senso e informandoci ognuno di noi può dare ogni giorno un contributo, a patto di rendersi conto che i comportamenti virtuosi dei singoli non possono risolvere crisi sistemiche e che il contributo più grande che possiamo dare è attraverso la pressione politica. 

Nel caso del digitale questi comportamenti virtuosi sono piuttosto elementari:

  • limitare l’acquisto di gadget elettronici;
  • far durare i nostri dispositivi il più possibile (anche privilegiando la riparazione alla sostituzione);
  • quando acquistiamo (nuovo, usato o rigenerato) facciamo attenzione ai consumi e all’efficienza energetica, e cerchiamo di scegliere prodotti facilmente riparabili e riciclabili;
  • spegniamo quello che non stiamo usando.