Intervista ad Adriano Zamperini, psicologo e autore del libro “Violenza invisibile. Anatomia dei disastri ambientali”
Quando avviene un grande disastro naturale – un terremoto, un’alluvione – ci sentiamo immediatamente trascinati ad agire: persone e gruppi si attivano per portare soccorso, offrire sostegno fisico e sociale. Un evento straordinario, inaspettato, improvviso e dai confini (temporali e concettuali) precisi ci attiva a mobilitarci. Ma non reagiamo allo stesso modo davanti a disastri ambientali altrettanto pericolosi, ma lenti e causati dagli esseri umani. “Cittadine e cittadini sperimentano un mancato consenso in merito alla pericolosità della situazione. E sono avvolti da un generale clima di indeterminatezza che rende confuse le decisioni da assumere e discordanti gli obiettivi della ripresa”, scrive Adriano Zamperini, psicologo sociale dell’Università di Padova, nel suo libro Violenza invisibile. Anatomia dei disastri ambientali (Einaudi, 2023).
Zamperini, che da più di vent’anni si occupa di psicologia della violenza, lavora a stretto contatto con le comunità colpite da disastri ambientali di origine antropica come la contaminazione chimica industriale, dall’amianto ai PFAS. Nel suo libro, elaborato anche grazie al lungo lavoro di team con la collega Marialuisa Menegatto, Zamperini delinea i confini di quella che può essere definita come “violenza ambientale”: la violazione dell’integrità di persone, animali e oggetti, che però spesso non si presenta come un evento improvviso, ma come un processo lento, a volte invisibile. Sostanze come l’amianto possono passare inosservate, e causare enormi danni a distanza di molto tempo: per le comunità colpite, ciò significa non avere la possibilità di valutare la propria condizione e capire come proteggersi.
Comunità corrosive
Questa incertezza, unita alla violazione del luogo in cui si vive (il suolo del proprio giardino, l’aria della propria città, l’acqua che arriva nella propria casa), provoca ferite profonde nelle persone e nelle comunità. Aspettative, paure e interessi diversi possono spaccare le comunità colpite da contaminazione in gruppi diversi: un fenomeno che Zamperini chiama “comunità corrosive”.
“Le comunità corrosive sono legate a situazioni di incertezza, a situazioni in cui ci sono conflitti di interessi: e noi sappiamo che ogni caso di contaminazione ambientale o di disastro ambientale mette in gioco diverse posizioni. Quindi è generativo di conflitti”, ci spiega Adriano Zamperini.
Il caso di Seveso è stato emblematico di questa dinamica: la comunità, colpita dal rilascio accidentale di diossina dallo stabilimento dell’azienda chimica Icmesa nel 1976, si spaccò davanti a decisioni come quelle sull’evacuazione dell’area o sull’opportunità di accettare il pagamento di somme compensative da parte dell’azienda (il che avrebbe significato non fare fronte comune in tribunale contro i responsabili del disastro). “Queste dinamiche si ritrovano anche nella gestione delle crisi ambientali e dei cambiamenti climatici in generale. Perché anche in questi casi il problema è trovare delle soluzioni in un contesto in cui confliggono determinati interessi”.
Un gruppo di lavoratori impiegati nel settore petrolifero potrebbe guardare con ansia all’approvazione di politiche di decarbonizzazione, nel timore di perdere il lavoro. Su una costa minacciata dall’innalzamento del livello del mare, chi ha una casa di proprietà e chi è in affitto avrà opinioni diverse sull’evacuazione della zona.
Un collante per la comunità
Le dinamiche che corrodono le comunità possono essere contrastate? Per capirlo, secondo Zamperini dobbiamo guardare a esempi di gruppi sociali che si sono dimostrati più forti e coesi. “Noi sappiamo che queste comunità corrosive sono più accentuate quando il tessuto della comunità è fortemente frammentato già prima dell’evento. Se invece siamo di fronte a comunità che hanno lavorato nel tempo secondo una logica comunitaria e non strettamente individualistica, questa condizione permette di reggere l’incertezza con minori danni. I riti sociali, i legami comunitari e le azioni di amicizia sono molto importanti”.
Anche se questo fenomeno non può essere disinnescato completamente, un’azione preventiva per creare comunità più coese può mitigarlo. “È un aspetto che è stato messo in crisi dalla cultura individualista degli ultimi decenni”, commenta Adriano Zamperini. “La politica potrebbe fare molto, non tanto sulla base di azioni meramente finalizzate a questi eventi, ma proprio per creare un collante comunitario che, davanti agli scenari che si prospettano, rappresenta un fattore preventivo necessario. Quando un evento [come un disastro ambientale] si manifesta, a valle del fenomeno, non è semplice ricostruire [la coesione di una comunità]”.
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Lavorare d’anticipo
Risalire a monte del problema è necessario anche nel contesto della contaminazione ambientale stessa. Zamperini si richiama al libro dell’ecologa Sandra Steingraber, “Living Downstream: An Ecologist’s Personal Investigation of Cancer and the Environment”. Nel libro, Steingraber rovescia la prospettiva che vede il cancro come una malattia individuale mostrando come le sue cause in realtà siano in realtà spesso ambientali ed economiche. Lo fa raccontando la sua stessa storia, di malata di cancro a causa della contaminazione del fiume lungo cui viveva.
Se il fiume è una metafora dell’ambiente contaminato, risalire a monte – alla fonte – significa bloccare l’inquinamento e i danni all’ambiente prima che questi avvengano. Un’idea che giuridicamente è rispecchiata nel principio precauzione, un approccio cautelativo alla gestione del rischio nel caso di fenomeni che hanno effetti potenzialmente pericolosi, ma il cui rischio non è ancora calcolabile con certezza.
“Non possiamo più continuare a industriarci a valle, trovando le soluzioni il più sofisticate possibili e pensando che, ad un problema tecnico, la soluzione sia strettamente tecnica. Dobbiamo avere una visione che sa anticipare, che sa mettere in gioco le competenze e le conoscenze acquisite pensando a che tipo di società vogliamo essere”, commenta Adriano Zamperini.
In questo processo, per decidere quali rischi sono accettabili per la società devono essere inclusi cittadini e cittadine. Un approccio che per lo psicologo deve essere applicato anche alla ricerca scientifica, per esempio con la pratica della citizen science (o scienza dei cittadini). “Il cittadino non è semplicemente il destinatario di un sapere che noi esperti elaboriamo nei nostri progetti di ricerca e poi trasmettiamo al pubblico. Il cittadino stesso diventa un coprotagonista della conoscenza, perché partecipa attivamente alla produzione della conoscenza. Anche segnalandomi dei temi di ricerca e dei problemi che io magari ignoro, perché sono lontano dai territori che loro conoscono bene”. Non solo cittadini consapevoli quindi, ma che creano attivamente conoscenza per proteggere i territori in cui vivono.
di Anna Violato – formicablu
Anna Violato è una comunicatrice della scienza freelance che vive a Bologna. Collabora con testate come Nature Italy, Le Scienze e RADAR Magazine, con lo studio di comunicazione scientifica formicablu e con diverse case editrici.
Foto di copertina: Abitazioni nel quartiere della centrale a carbone di Belchatow, a Huby Ruszczynskie, Polonia, nel novembre 2023. Foto di Anna Liminowicz/Climate Visuals (CC BY-NC-ND 4.0)